Regia: Karyn Kusama
Cast: Logan Marshall-Green, Tammy Blanchard, Michiel Huisman
Partiamo dal finale.
Perché la citazione del fight club di Fincher è tanto plateale quanto inattesa e capace di trasportare su un nuovo piano narrativo tutta la vicenda, palesando (qualora ce ne fosse ancora bisogno), il carattere fortemente metaforico della pellicola.
Il thriller di Karyn Kusama è un piccolo concentrato di pulizia tecnica che anche non volendo fare del colpo di scena il suo punto forte, accarezza e solletica lo spettatore e le sue intuizioni fino a far dubitare di queste per poi confermarle, in piena coerenza con la forma e la sostanza della storia proposta.
Will (Logan Marshall-Grenn) e Eden (Tammy Blanchard) hanno divorziato dopo la tragica scomparsa del figlioletto. Lei, sparita dalla circolazione per un paio di anni con il nuovo compagno, decide di organizzare una riunione con i suoi amici di un tempo e relativi compagni nella casa in cui si era consumata la tragedia che fa da sfondo e da miccia per l’intera vicenda.
I toni claustrofobici ed opprimenti del film ci catturano sin dalla prima scena, quando, alle difficoltà evidenti e comprensibili di Will di tornare nella sua vecchia casa, si aggiunge un inconveniente (che si paleserà essere la seconda grande metafora del film), forse inevitabile, tanto crudo e forte quanto capace di esplicare il carattere freddo ed irruento allo stesso tempo dell’uomo, provato dalla vita.
Punto forte della narrazione è la capacità di non dover mai spiegare, come da perfetto manuale di scrittura creativa, riuscendo invece a dare un senso compiuto ad ogni gesto, ad ogni reazione e persino ad ogni smorfia dei personaggi.
Proprio i personaggi, anche quelli appena accennati, mossi ognuno dalle proprie inclinazioni personali, sembrano fare da contraltare allo spettatore mettendolo di fronte a dilemmi e perplessità di carattere etico e morale, e alla riflessione, mai banale, su quanto sia facile scadere nel giudizio e nella condanna di un pensiero che ci sia poco affine.
All’ansia e al nervosismo, palpabili, di Will, si contrappone infatti la serenità, glaciale, dell’ex moglie Eden e del suo nuovo compagno David (Michiel Huisman) che affrontano il proprio passato con un distacco che a lui risulta incomprensibile.
Il peso della responsabilità e la difficoltà nell’affrontare nuovi percorsi si specchiano, anche in maniera psichedelica, con la consapevolezza dell’inevitabile e la disponibilità nel riuscire ad accettarlo.
La regia, pulita e sfiziosa, ci conduce nel racconto di questi due percorsi di redenzione agli antipodi, in un crescendo di tensioni che divampano improvvise o che vengono soffocate veloci così come si erano presentate, conferendo un ritmo originale e un senso di inquietudine avvinghiante all’intera pellicola.
Gli invitati al convivio (vecchi e nuovi amici di Eden), servono a bilanciare o a squilibrare ulteriormente la vicenda, tra imbarazzi, morbosità e paranoie.
The invitation è un thriller particolare, intenso e ben scritto, capace di distaccarsi dai cliché di genere e di raccontare l’accettazione della sofferenza e il devastante turbinio che inevitabilmente ne consegue.
E intrattiene.
E cita fight Club.
Voto: 7.5/10