Il deserto intorno ai confini del Texas è il luogo in cui criminali e indesiderati vengono esiliati nell’America creata da Ana Lily Amirpour per il suo thriller distopico uscito nel 2016 The Bad Batch.

Un misto tra un film di Carpenter e Mad Max, il film datato 2016 vede la presenza di un cast incredibile e sfrutta una colonna sonora d’eccezione per valorizzare la sua fotografia patinata che va in contrasto con i temi e le scene rappresentate in un’opera tanto cruda da tenere lo spettatore in bilico, in un equilibrio solo apparente, come quello vissuto dai protagonisti.

Suki Waterhouse, Jason Momoa, Giovanni Ribisi, Keanu Reeves e uno straordinario Jim Carrey in un prodotto scritto e diretto dalla regista di origini iraniane che, sebbene forse un po’ lento nel suo svolgimento, è estremamente efficace nel lanciare il suo messaggio rimarcandolo così tanto da farlo sembrare ovvio e scontato, salvo poi colpire in maniera ancora più atroce.

The Bad Batch

Il viaggio di Arlen nel deserto-prigione

The Bad Batch comincia con l’esilio di Arlen nel deserto prigione che costeggia il Texas, là dove il governo degli USA non ha legislazione e non protegge da niente e da nessuno. La ragazza lo impara in fretta, venendo catturata da un gruppo di cannibali che le amputa il braccio e la gamba destri prima che riesca a liberarsi e a fuggire nella vastità dell’arido carcere. 

Quando Arlen verrà salvata da un misterioso eremita, entrerà a far parte della comunità di Comfort, dove la vita sembra decisamente più accettabile che nell’area desolata intorno alla cittadina.

Il desiderio di vendetta e tutto quello che le accadrà successivamente le faranno capire che non sempre quello che luccica è davvero oro, e segneranno per sempre il suo modo di vivere l’esilio.

The Bad Batch

The Bad Batch luccica per mostrare il buio

The Bad Batch comincia con il piede sull’acceleratore con la scena dell’amputazione e la presentazione degli abitanti del Ponte, per poi abbassare il ritmo tenendo lo spettatore quasi sospeso in una sorta di limbo che somiglia a quello dei protagonisti, intrappolati e in attesa di qualcosa di indefinito.

Uno dei punti forti dell’opera della Amirpour sono proprio i personaggi, mai troppo raccontati e di cui non ci resta altro che l’aspetto fisico e i comportamenti, a volte improbabili o dall’apparente poco senso, ma che ne raccontano la personalità e ne esplicitano l’attitudine in cattività e non solo.

Perché quello della prigione non è altro che un espediente per raccontare il nostro mondo e le nostre società in un altro modo, da un punto di vista più distaccato: Comfort e il Ponte non sono tanto le rappresentazioni di quello che siamo, quanto piuttosto di dove siamo cresciuti, e di come siamo stati abituati a vivere, per necessità e, a volte, ovviamente, anche per scelta.

La questione diviene più chiara in un dialogo tra il Miami Man (personaggio dai tratti all’apparenza estremamente contraddittori) di Jason Momoa e Arlen, quando il cannibale, senza specificare se stia parlando della sua origine cubana o della sua appartenenza alla comunità del Ponte fa capire alla ragazza come lei non possa comprendere uno stile di vita che non conosce e di cui non può intuire le motivazioni o gli ideali.

Il personaggio del Sogno (interpretato da Keanu Reeves), allo stesso modo, non può che rappresentare l’antitesi di Miami Man e una società imperniata su altro e che si regge sulla comodità, sull’intrattenimento e sul servizio per nascondere tutte le sue contraddizioni e i reali interessi di chi la porta avanti.

È una sorta di contrapposizione tra chi vive la legge della strada e chi si nasconde dietro una società costituita da leggi. E quello che ne esce fuori è che la differenza non è poi così tanta, a pensarci bene.

In tutto questo si inseriscono poi due personaggi completamente al di fuori di ogni logica: il folle Urlatore interpretato da Giovanni Ribisi e l’Eremita di Jim Carrey, che sembrano vivere in quei due mondi senza appartenervi realmente.

Una menzione d’onore, in questo senso, la merita proprio l’interpretazione di Carrey, quasi irriconoscibile nel trucco e che senza mai proferire parola dona al suo personaggio un carisma e un’importanza straordinaria nonostante i pochi minuti in scena.

L’opera della Amirpour alterna momenti di lenta austerità ad altri di frenesia e confusione, con una regia che sa bene adattarsi alle situazioni e che sembra sapere sempre cogliere il punto focale delle situazioni messe in scena.

La fotografia patinata, che a una prima impressione sembra stonare con tutto il resto, è in realtà perfetta per regalare a chi guarda un’altra dissonanza cognitiva, come se lo sporco potesse essere impacchettato, infiocchettato e venduto o come se The Bad Batch non fosse nient’altro che quello: corpi, stile e tecnica, lucidati e messi in bella mostra.

Menzione d’onore per la colonna sonora, tanto azzeccata che in alcuni momenti il film si trasforma quasi in un video musicale e capace di trasportare, insieme a dei girati quasi onirici, in una dimensione parallela rispetto a quella raccontata nel film.

The Bad Batch
The Bad Batch

The Bad Batch è un film moderno e scrupoloso

The Bad Batch, dunque, è un film dalla fortissima personalità, che non teme di mettere in mostra la forma e finge di voler nascondere la sostanza, con cui in realtà colpisce lo spettatore senza pietà fino alla scena finale, che è il culmine del tutto e che lascia di sasso, nella sua semplicità.

Un film che ha diviso e dividerà, che può piacere o lasciare totalmente indifferenti e anzi, infastiditi dal suo ritmo altalenante.

Noi siamo rimasti ammaliati dal suo racconto e stupiti dalla sua profondità, ma, forse, apparteniamo, o quantomeno ci piace sentirci vicini, a quel lotto difettoso di cui parla il titolo.

Voto The Bad Batch: 7.5/10

The Bad Batch