Sì, è vero, nessuno mi ha invitata alla prima del film, non ho comprato un vestito a tema e non ho creato neanche un make-up adatto, ma con qualche giorno di ritardo, ho finalmente potuto godermi, in un cinema gremito di teenager in rosa, mamme nostalgiche, fidanzati adolescenti chiassosi e metalhead (forse) fuoriposto, il tanto acclamato primo live action sulla bambola più famosa al mondo.
Quel campione al box office che è Barbie, un film che sta infiammando da mesi la rete, con protagonista la biondissima Margot Robbie (i cui piedi hanno spinto, come era prevedibile, anche Tarantino ad acquistare il biglietto).
Uscito nelle sale in Italia in contemporanea con gli USA, il film è stato scritto e diretto da Greta Gerwig, classe 1984, nota al pubblico per Lady Bird e il suo riadattamento di Piccole donne.
Barbie è una pellicola sicuramente patinata, ma che, se la si guarda sotto la sua superficie glitterata, sa essere ricca di citazioni intelligenti nel suo tentativo di porre l’attenzione, in maniera molto ironica, su temi sociali ed antropologici forti e, inevitabilmente, divisivi.
Life in plastic, it’s fantastic!
Barbie stereotipo si sveglia ogni mattina pronta a vivere il più bel giorno della sua vita, in una casa da sogno, in un quartiere perfettamente ordinato, indossando un outfit impeccabile, completo di vertiginosi tacchi a spillo, e, salendo sulla sua macchina rosa, attira l’attenzione di tutti i componenti del suo incantevole vicinato, che la salutano, curva dopo curva, sfoggiando un plastico sorriso amorevole.
La magia quotidiana a cui è abituata la bambola, interpretata magistralmente dall’australiana produttrice di Una donna promettente, inizia a scricchiolare con l’improvviso sopraggiungere di tanto ordinari quanto spaventosi pensieri umani (troppo umani) nella routine immutevole della sua vita sempre perfetta.
Scricchiola al punto da spingere Barbie a rivolgersi alla sua omonima versione stramba, nota a Barbieland per essere colei che, dopo essere stata la compagna di giochi di una bambina troppo irruenta e poco attenta nel preservarne intatta la lunga chioma color platino, sa porre rimedio ad ogni malfunzionamento o difetto di produzione delle altre bambole.
Messa al corrente del fatto che le stranezze che stanno sgretolando le sue certezze di bambola derivino dal vissuto della bambina che la possiede, quello che Barbie dovrà intraprendere sarà un viaggio nel mondo reale, per trovare la ragazzina a causa della quale i suoi piedi non hanno più quell’innaturale forma arcuata, le sue cosce si stanno tappezzando di inestetismi cutanei e la sua mente è stata corrotta da pensieri mortali e, infine, scoprire se stessa.
Richiami cinematografici e autocritica nel film con Margot Robbie e Ryan Gosling
La pellicola distribuita da Warner Bros, che detiene il primato di essere il film diretto da una donna con il più alto incasso domestico nel primo giorno di proiezione, è un prodotto divertente, godibile da un pubblico variegato (se si esclude quella fetta di pubblico maschile che ha ancora qualche piccolo problema con la propria autostima), e lo è grazie ad una fotografia dall’aura sognante e patinata, grazie al forte uso di colori forti e brillanti e all’interpretazione perfettamente calata nel ruolo dei protagonisti di Margot Robbie, che come si è già detto interpreta la Barbie principale, e di Ryan Gosling, nel ruolo di Ken, che a differenza di tutte le bambole create da Mattel può essere sempre e solo Ken.
Barbie è sì un film godibile, ma è anche un film molto intelligente, che contiene diversi omaggi al mondo cinematografico, più o meno lampanti.
Nell’introduzione alla storia, nelle prime sequenze, la voce narrante (che, scopriremo in seguito, è quella di Ruth Handler, creatrice di Barbie) mostra come, in un mondo in cui le bambole erano state sempre eterne infanti, prodotte per il diletto di bambine incastrate in un destino che le voleva come perfette mamme e casalinghe, il colosso statunitense abbia rivoluzionato il mondo dei giocattoli introducendo nel 1959 la prima bambola dalle sembianze adulte (anche se in Germania, nel 1955, veniva già distribuita la Bill Lilli, che non ebbe, però, lo stesso successo internazionale).
Ed è in questi primi minuti di proiezione che il richiamo al capolavoro di Stanley Kubrick entra in scena, con un evocativo richiamo alle sequenze iniziali di 2001: Odissea nello spazio, accompagnato dalla medesima celebre colonna sonora firmata da Richard Strauss.
Non meno importante è il richiamo al primo Matrix, il film cyberpunk scritto e diretto dalle sorelle Wachowski, divenuto pietra miliare della cultura cinematografica moderna: quando Barbie si reca dalla sua contemporanea fata turchina, la già citata Barbie stramba – che ricorda un po’ una versione fluo di una Avril Lavigne anni 2000 e, vagamente, l’inquietante replicante Pris nella casa delle bambole di Blade Runner – e viene messa di fronte alla scelta tra la sua pillola blu, in versione scarpe dal tacco stiletto, e la sua pillola rossa, incarnata da un paio di meno attraenti Birkenstock, ci appare chiaro il riferimento alla scelta di Neo.
Ma l’intelligenza dei produttori non si ferma alle citazioni cinematografiche. Barbie sa essere, al contempo, anche un film ironico e di forte autocritica.
La Mattel, infatti, non ha paura (forse, diranno i più maliziosi, grazie al confortante odore del prevedibile successo del film e del suo merchandise) di autocriticarsi e prendersi poco sul serio, deridendo se stessa, il funzionamento interno all’azienda e l’opinabile messa fuori produzione delle sue creature meno commercializzabili (una bambola incinta è decisamente troppo strana, cit.).
E lo fa a ritmo di musica, richiamando alla mente dei meno giovani quella sonorità tipica del musical cinematografico per antonomasia, Grease, e vestendo Ken, che scopre, a modo suo, il patriarcato e la mascolinità tossica, come Stallone in pelliccia, che lungi dall’essere ridicolo e pacchiano, negli anni ‘80 era la tipica incarnazione del maschio alpha.
Patriarcato e lotta femminista a dimensione di bambola
Il maschio alpha (o almeno chi si vede nello specchio come tale) è l’unico che esce sconfitto dal film.
Attenzione, ho parlato di maschio alpha, non del genere maschile.
Ed è questo, secondo me, che non è chiaro agli uomini che hanno mosso, soprattutto sui social network, forti critiche alla pellicola.
Barbie, infatti, non è una critica all’universo maschile in toto, non lo è e non potrebbe esserlo per diverse ragioni.
Innanzitutto, bisogna partire dall’assunto che nell’universo Mattel, Ken è sempre stato secondario rispetto a Barbie: non ne esistono diverse versioni, Ken è sempre Ken, sempre in tiro, sempre bellissimo con i suoi addominali scolpiti, ma non ha mai avuto le diverse possibilità poste di fronte a Barbie.
Barbie è una bambola nata per le bambine, per emanciparle da un mondo, quello degli anni ‘50, che le vedeva come destinate ad essere relegate in casa a prendersi cura di pargoli e mariti troppo stanchi per buttare la spazzatura, e dargli una speranza: quella di poter essere chi volevano, a patto che, come è (o dovrebbe essere) per tutti, si impegnassero per costruire una carriera che appariva loro preclusa.
Ed è per questo che esistono Barbie dottoressa, esiste Barbie presidente, esiste Barbie astronauta.
Ken può essere tutte queste cose da sempre, solo che a Barbieland non lo sa. Perché Barbieland non è il mondo reale, è una casa delle bambole versione stato immaginario.
Ed è proprio in questa illuminante scoperta, preceduta dall’assurdo ribaltamento delle regole sociali dello stato delle bambole, che si gioca, a mio avviso, l’importante messaggio dell’intera pellicola: ognuno di noi, biologicamente maschio o femmina che sia, dovrebbe poter essere tutto ciò che vuole, in totale libertà, senza mai dimenticare che fondamentale è il rispetto per l’altro e il diverso.
Ma Barbie non cambierà il mondo. E non deve farlo.
Il cinema nasce per aprirci alla riflessione, attraverso la meraviglia e lo stupore, che restano primari in quella che è considerata la settima arte.
E se il film di Greta Gerwing ha suscitato così clamore è perché ci si aspetta, erroneamente, che un film che tratti temi femministi debba farlo in maniera impegnata, senza fronzoli, come ci si aspetta che una donna faccia lo stesso. Senza fronzoli, senza spensieratezza, senza fragilità, senza scuse.
Ma ricordiamoci, anche se chi è spaventato dal femminismo, che lungi dall’essere una parolaccia, è sinonimo di inclusività e pari diritti, vuole farci credere il contrario, ridere dei problemi e delle criticità del mondo fa bene alla salute, soprattutto quando siamo arrabbiati, e che non prendersi troppo sul serio ci rende meno dura la lotta verso il cambiamento.
Voto Barbie: 8/10
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