L’asfalto, sbiadito, violentato dalle crepe, faceva da tono di fondo.
Sembrava colorare anche il cielo.
Enormi palazzi di giorni dimenticati restavano in piedi, come dimentichi, incuranti, del proprio ineluttabile destino.
Cartelloni laceri, automobili bruciate ed inghiottite dalla vegetazione che faticava a riprendersi quello che le spettasse, artefatti ormai privi di forma e significato.
Il silenzio di quel momento, rotto soltanto dai gracidii malati di uccelli deformi o dal turbinio del vento che si incanalava tra le rovine di una società che si era creduta invincibile, non sarebbe durato per sempre.
Il virus non era stato debellato.
Era lontano ma ancora troppo forte, intuile illudersi.
L’umanità e la sua furia, la sua capacità di portare a termine un piano di distruzione tanto efferato quanto sconsiderato, erano ancora là fuori a razziare.
Cercando attimo dopo attimo qualcosa di nuovo da saccheggiare.
Qualcosa di nuovo da conquistare.
Al limite, qualcosa di nuovo da distruggere.
Ma sarebbe andato bene anche qualcosa di vecchio, alla fine dei conti.
La crepa che squarciava il pianeta, che lo lacerava nel profondo, aveva radici molto profonde.
Ma la Terra sarebbe sopravvissuta.
E forse lo stesso sarebbe valso per l’umanità.
La speranza risiedeva nei piccoli dettagli: nei fiori, luminescenti, capaci di mutare per adattarsi alle radiazioni; nelle tempeste che portavano morte e purificazione; nascosta tra i grattacieli e l’acciaio, su una torre in legno che si innalzava tra le macerie, quasi a sbeffeggiarle.
E la parte sana dell’universo si sarebbe nutrita di quelle speranze.
Si sarebbe nutrita della forza dirompente dell’evoluzione.
Si sarebbe nutrita del lascito di chi era stato in grado di gestire il proprio istinto di sopravvivenza.
E su quella torre, abbastanza nascosta e protetta da essere desiderata, libera ed aperta a tutti come per un’ingenua fiducia indistruttibile, qualcuno aveva messo al sicuro un tesoro.
Aveva tirato su la torre, l’aveva resa resistente ed accessibile e ci aveva disegnato sopra un numero, ancora ben leggibile, a testimonianza di un recente restauro.
21.
Dentro la torre, di fronte all’orizzonte scassato di un’era ambigua, non c’era oro, petrolio o alcun bene di prima necessità.
Il grano e l’acqua sarebbero stati da cercare altrove.
Solo un computer, uno schermo ed una scatola metallica.
Alimentati da un pannello solare attraverso due o tre fili rattoppati insieme e che lo inseguivano fino sopra al tetto della torretta.
Lo schermo era acceso.
In loop, come una contraddizione, scene di vecchi racconti di un’età antica.
Quello che rimaneva di una cultura morta suicida.
La speranza che qualcosa possa nascere da un seme, nonostante tutto.
La Torre 21 proteggeva storie.
Come se al mondo, sotto ad un cielo così grigio, dovesse fregare qualcosa.